Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


lunedì 25 gennaio 2021

The widest possible view of the open sky.

 

 

Il capelvenere ora guarda il cielo e forse, ma lo dico piano, abbiamo trovato un accordo. Dopo fallimenti così definitivi da togliere senso e gioia a ogni ulteriore tentativo, dopo disamoramenti rapidi e volubili ritorni, spostamenti schizofrenici, accanimenti terapeutici, bagni di vapore, piogge e travasi, preghiere, musica e ostentata indifferenza, eravamo infine arrivati a un “mai più” quasi convinto. Non tutto si può avere, non tutto si può fare, persino la magia si arrende di fronte a certe resistenze del reale e si ritira sdegnosa davanti a divinità arcane, che non capisce e non comanda. E così a volte l’amore non è corrisposto, il fraintendimento è costante, i bisogni dell’altro incomprensibili. Tutto dovrebbe funzionare e nulla funziona, eppure c’era pazienza e volontà, desiderio e attenzione, gli ingredienti sembravano giusti. Forse la temperatura delle mani nell’impasto, o un fugace cattivo pensiero, i fluidi della luna crescente, gli scontri di trigoni e case celesti, forse il karma, il ciclo mestruale, il temperamento, il tempo. Quell’incontro disarmonico tra parole e silenzi, una carezza che per sbaglio diventa schiaffo, inciampare nel tango. A lasciar parlare i corpi, si sa subito se provengono dallo stesso pianeta. È solo che spesso non si vuole sentire, si persevera a parlare due lingue diverse e a far finta che funzionino traduzioni improvvisate. Con le piante, non c’è finzione che tenga. Senza pelle, vivono di vibrazioni, impercettibili variazioni di umore e umidità, reagiscono senza mediazioni al mondo che le contiene, scambiandosi chimica e respirando pensieri indecifrabili. 

E dunque il capelvenere. Mia pianta totemica, vibrante delicatissima creatura boschiva, sorella di fate e falene, muschio e sorgenti, dalle piccole mani di spore, felce umbratile e ombrosa. Amore mai corrisposto, mal riposto, che ho visto tante volte seccare di sete e solitudine, malinconica emissaria di una natura umida e nascosta, da cui siamo stati esiliati e a cui maldestri desideriamo tornare. E dunque il capelvenere, non conto quante volte l’ho comperato, curato, spostato e spruzzato, persino relegato per disperazione e per non doler del cuore nella serra fredda insieme ai limoni. Poi un giorno, per serendipity, vagando distratta alla ricerca di suggestioni e altri possibili, trovo, in inglese, un articolo tecnico, per niente poetico, che per qualche ignota ragione si trasforma in formula magica, definitiva e audace, così potente da cambiare la realtà, quella dura. 

Give the plant (maidenhair fern, cioé capelvenere)  the widest possible view of the open sky”. Open sky. Questa giuro non l’avevo mai pensata, che il capelvenere amasse affacciarsi a guardare il cielo, e di tutte, era forse l’unica attenzione che non gli avevo dato. 

Eppure guardare il cielo è anche una delle mie, di cose preferite. A volte basta trovare un unico piccolo comun denominatore per cancellare anni di incomprensioni.

 

Sul suo davanzale che guarda il giardino, il capelvenere dimentica tutto il resto, il suo essere un’anima tormentata e capricciosa e persino il sole che, al mattino, gli tocca (sacrilegio) le sensibilissime foglie.

Ha ciò che ama, e tutto il resto, come in un privatissimo universo, si dispone per renderlo felice.

 

 

 

 

venerdì 15 gennaio 2021

La Melusina e l'arcobaleno di Goethe.

 


Un arcobaleno che dura un quarto d'ora nessuno lo guarda più.

                                                            (Johann Wolfgang Goethe)

 La bellezza è funzione della fuga, l’effimero ci riempie di languore e nostalgia, il continuo trasformarsi delle cose ci costringe ad acrobazie di attesa e sorpresa, che lasciano frastornati di precaria beatitudine. Lo spettacolo è indimenticabile perché sappiamo che finirà, tra applausi e lacrime di commozione.

 

Quando tutto sembra fermarsi, le cose si fanno diverse. Ci stanchiamo in fretta, ci annoiamo di ciò che ieri abbiamo divorato con occhi avidi, ci immalinconiamo subito della felicità appena provata, le togliamo valore. Vogliamo cambiare canale, sfondo, panorama, pianeta.

E quindi la neve, qui alla Melusina, non la guardo nemmeno più, come il noiosissimo arcobaleno reso imperituro da Goethe. Non vedo più la sua consistenza, che peraltro è ancora bellissima, candida e croccante nel gelo del mattino. Non vedo neanche il vasto paesaggio di montagne, tetti e campanili  che si dispiega bianco davanti alle finestre e che mi rincuorava fino a ieri. Quello che vedo è invece un dispetto, una brutta coperta buttata sul mondo, una tenda che nasconde il mio sogno. Il giardino da parte sua, così neonato, così ancora impreciso, non ha bellezze da esibire e nulla di consolatorio, né cortecce colorate, né rami lucenti, né bacche allegre, né geometrie ghiacciate, e nemmeno i cachi arancioni che qui intorno salvano persone e passeri dall’inverno. Non ha quasi nulla, se non rametti spauriti e sgraziati, alberelli solitari, spine di rosa e cumoli rotondi che lasciano, con qualche fantasia, intuire salvie e rosmarini. Le querce e i ciliegi si impongono allo sguardo, rendendo, però, ancora più evidente il vuoto intorno.  Tutto il resto, sepolto in un mondo di mezzo, chiuso in un’armatura impenetrabile. Cosa c’è non lo so più, cosa c’era non ricordo, cosa ci sarà è affidato a qualche ondivaga speranza. E a poco vale il mite pensiero del “sotto la neve pane”, e del lungo sonno vegetale. Qui, dalle mie finestre, tutto sembra congelato in un incantesimo eterno, come il cuore di ghiaccio della regina delle nevi. 

Siamo fuori sincrono, la Melusina ed io, separate da diversi esercizi di pazienza, da diversi flussi del tempo, da diverse saggezze e da diverse esperienze. Non ci comprendiamo. Non è la prima volta che succede, che il battito del cuore sia sfasato rispetto a quello del mondo, succede con i bambini molto piccoli, quando i mesi sembrano durare secoli e l’eternità prende la forma delle notti insonni, succede quando da ragazzini si desidera correre al ritmo degli adulti, senza capire che grande inganno sia. Succede a volte con l’amore.

 

Per cui, come dice la mia saggia vicina, occorre fare esercizi di immaginazione e usare il foglio bianco che abbiamo davanti per disegnare mandala, macchie di colore, aiuole, rotazioni, semine, e immaginare inaspettate fioriture  e scorci di tropici domestici. E poi uscire, anche se si gela. Il calicanto, oggi che c’è il sole, sta aprendo i suoi piccoli pugni, fino a ieri serrati in posizione di difesa. Domani l’aria sarà piena del suo inconfondibile profumo e la primavera di un passo più vicina.

 


 

martedì 5 gennaio 2021

Letargo.



Le cince sono proprio affamate. Volano nervose, osano la vicinanza, improvvisano combattimenti aerei. Sono tenere e disperate, profughi bambini nella neve del cammino. 
Io, che non riesco a tenere il passo della loro fame, continuo ad appendere palline di grasso e a riempire le mangiatoie di semi.
 Nevica da giorni, una neve bianchissima mista a nebbia, che con il nero degli alberi spogli rende tutto di un uniforme grigio chiaro, riposante ed esasperante, leggermente allucinato come la notte bianca di Tallin o come i sogni dell'alba. La casa è rifugio e prigione, e quasi rimpiangiamo di non essere animali da letargo, per godere, nel sonno, delle pareti sempre più strette della nostra tana. Sarebbe bellissimo coprirci di foglie e pelo, addormentarci accanto a chi amiamo, essere cuccioli dopo la poppata. Stare lì, al sicuro, senza paura, senza fantasmi, senza sogni e senza attese, ad aspettare il disgelo, svegliarsi quando tutto si sveglia e finalmente andare a caccia, abbracciarci, percorrere il mondo, libero e nuovo, liberi e nuovi. Nascere smemorati e saggi, consapevoli nel corpo, ma ingenui e puri in una memoria da disegnare e in una geografia da imparare. Come sarebbe bello aver visto tutto senza ricordarsi nulla e ricominciare vergini a stupirsi dei torrenti.
 
E intanto spariscono le montagne oltre le finestre, e un foglio bianco ci invita a disegnare orizzonti diversi da quelli che conosciamo, pianure, città arboree, foreste pluviali, grandi fertili estuari, magari persino il mare. Qui dentro c’è caldo, cibo, amore, luci, giocattoli, libri e piante tropicali. C’è il mio mondo e tanto basta. Che tutti -tutti- stiamo imparando a fatica che sono pochissime le cose importanti, e il mondo là fuori, paziente, continua a insegnarcelo con tutte le voci che ha, e adesso con la neve. 

Che strano periodo, torniamo animali.