Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


venerdì 19 febbraio 2021

Il gelo e l'ulivo.

 


Fa molto freddo, un freddo umido e pungente che non mi lascia scampo e che dopo dieci minuti azzera la cultura, riportandomi a uno stato di animale indifeso e richiamando immediati brutti pensieri, e altrettanto immediati sensi di colpa “nelle nostre tiepide case”. Il freddo -questo freddo- è il mio personale psicoattivo per rapidamente connettermi con mondi che conosco non davvero. Per le mistiche la fame, per i camminanti la fatica, per me la via è il freddo umido di metà febbraio.  

Fa più freddo di quanto dica il termometro, un freddo senza rassegnazione, non tollerabile. Mi impensierisco per i piccoli bulbi appena nati, per la terra che -presa da ansie primaverili-ho liberato l’altro ieri dalla pacciamatura di foglie e fieno, per le talee di rose del giardino di mia nonna Maria che sono già gonfie di gemme  e soprattutto per il giovane ulivo piantato la scorsa primavera accanto al muretto, che prende ogni gelata come un tradimento, come uno schiaffo non meritato. Povero ulivo da supermercato, con le sue sempreverdi foglioline argentee, costretto a essere bandiera di pace e di mediterraneo, così impreparato alla vita di qui, e ora soldatino in trincea, neanche protetto dalla coltre di neve diventata terra ghiacciata.

Per qualche incomprensibile chiodo spartano, inculcato nelle pieghe della mia educazione, mi ostino a guardare da lontano la sua solitaria battaglia,  a non fornirlo di coperte artificiali, insomma ad abbandonarlo lì, ad affrontare il destino, il probabile gelicidio e la notte sotto zero, senza velo da sposa a coprire tronco e chioma. Una specie di darwinismo invernale, se ce la fa ce la fa,  non è così che si diventa forti, a prezzo di brividi e sofferenze?

 Mentre scrivo però, crollano certezze e templi, e dopo aver infilato il mio secondo maglione,  già mi viene voglia di rimediare. Chi sono io per guardare con superiorità i giardinetti a prato inglese e ciottoli bianchi, dove troneggiano ulivi e palme, come mummie avvolti in garze e teli, improbabili totem nell’inverno cuneese? Magari hanno ragione loro.

 Alla fine non faccio nulla, tranne sperare che immaginazione, preghiere e atti psicomagici possano da soli  funzionare da termosifone.

Vedremo. Ora non si capisce ancora se c’è patimento, e intanto è tornato il sole.

I limoni, il lime,  la brugmansia, il cappero alassino, l’asparagina e persino il capelvenere oggetto di uno dei miei primi esperimenti di sopravvivenza in condizioni estreme,  continuano il lungo soggiorno invernale nella serra, dalle miracolose e incomprensibili proprietà isolanti. In quella piccola porzione di mondo protetto, le piante sonnecchiano tenendosi compagnia, come se l’inverno fosse una convenzione o poco più.

L’erba è croccante sotto i passi, gli uccellini si scrollano di dosso la brina e sembrano volare più leggeri di qualche settimana fa, Chira, il cane giallo, corre fino in fondo al recinto e annusa tracce di conigli e volpi, abbaia, chiama, sembra inebriata da qualche energia che non riconosco.

Alla fine, come sempre, basta prestare ascolto e fare esercizi di pazienza. Tutto e tutti si stanno preparando alla rinascita primaverile.

Persino l’ulivo forse sa, e comunque molto meglio di me, che questi aghi di gelo sono proprio gli ultimi colpi, quelli più aggressivi, quelli più feroci, di una battaglia ormai inequivocabilmente perduta.

 

 

 

 

mercoledì 3 febbraio 2021

Non più e non ancora.



Non più e non ancora. Le chiazze di prato in mezzo alla neve, che ogni giorno si allargano e cambiano forma, sembrano dall’alto carte geografiche, estuari, canyon, continenti, isole alla deriva nell’oceano, ma anche nuvole in transito. Oppure il manto di un grosso animale maculato di cui si riesce a scorgere solo il dorso.  

I colori sono ancora quelli di prima, grigi, neri, bianchi e marroni, ma gli squarci di verde, come strappi nella tovaglia o patchwork imbastiti, sono sufficienti a dare paletti allo sguardo, a creare stanze e strade. Intorno agli alberi, soprattutto quelli grandi, il verde è più esteso e circolare, grazie alla vita sotterranea delle radici e al dialogo misterioso che unisce in profondità tutti i viventi.

A guardare bene, in quella superficie umida dove il fango si mischia alle foglie e i fili d’erba sono capelli di neonato, c’è già trasformazione. Forse in luoghi più vicini al sole questo è un primo vero risveglio, e un’avvisaglia dei preparativi per la nuova stagione. Qui il ritmo è lento, la canzone è ancora ninna nanna e questi impercettibili cambiamenti assomigliano di più al passaggio a una fase nuova di sonno, quella del mattino presto, dove la luce, le speranze e le nerissime paure si mescolano in un impasto onirico ancora difficile da decifrare, ma sostanza e nutrimento di un incredulo mattino.  

Persino la neve, nei punti dove ostinata sembra resistere al ciclo del tempo (ma è un’illusione, perché solo la specie umana, di tutte, si ostina, e io con lei), non è più uniforme biancore, ma, persa la giovinezza del pieno inverno, è pelle rugosa, punteggiata di macchie, passetti, orme, saltelli, persino strane sinuose andature. Increspature del vento, piccole volontà che, incoraggiate dall’intermittente tepore tardo invernale ridanno inizio ai loro traffici o, nel caso di fate e topi ragni, cominciano il balletto delle visite di cortesia. 


Non più e non ancora. In questa terra di mezzo, il tempo dà il tempo per lunghi e nascosti riti di passaggio, canti propiziatori che arrivano alle nostre orecchie come richiami di uccelli, fruscii, scricchiolii e scrosci d’acqua dai tubi delle grondaie. Cascate continue e gocce intermittenti creano minuscoli laghetti estemporanei, l’acqua scorre discreta ai bordi del muretto e dei marciapiedi. Le foglie dei piccoli ellebori, degli epimedium coraggiosi sotto il melograno dormiente si riprendono lo spazio verticale come nulla fosse, dopo la lunga clausura, scrollandosi di dosso la neve con un’energia di steli verdi scuro che non lascia spazio al pessimismo. Altri, le giovanissime rose mutabilis,  le Penelope ancora forestiere, l’iperico (hypericum magical red flame), privato del suo giallo pirotecnico, e una variegata teoria di arbustini e cespuglietti emergono rotti e un po’ stropicciati. 

Strano periodo di transizione, in cui il sole e la pioggia insieme sciolgono la neve, improbabili e precari alleati al servizio della primavera.

Non più e non ancora, ed è difficile tenere a freno l’entusiasmo e non esagerare con la caccia al tesoro (vedo la punta di un bulbo, una primula, tre margherite, e i bucaneve, dove ho messo i bucaneve?). Perché basta una notte di gelo o una spuzzata di brina per ributtarci all’indietro, nella sorella disillusione. 


La volpe, stamattina, attraversava in controluce il grande prato in discesa, precisa e senza incertezze.

Forse bisognerebbe soltanto imparare da lei.  Vivere senza attendere, camminare senza cercare, andare senza anticipare, buttare gli orologi, respirare, che ogni minuto è lunghissimo se stiamo fermi a guardarlo passare.