Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


venerdì 29 aprile 2016

Casa è dove c’è una pianta.




Mettere le radici è una metafora usata e abusata per significare che si è deciso di fermarsi. Dopo lungo andare, o dopo qualche girovagare non importa.  Noi abbiamo i piedi che ci possono portare lontano, le piante –almeno in natura- si possono certo spostare, ma con metodi che appartengono solo a loro, grazie al vento, alle api, e a tutte quelle cose che sappiamo.
Poi ci sono le piante in vaso. Quelle sono un po’ come i pesci rossi nella loro boccia di vetro, o se vogliamo, come le chiocciole nel loro guscio. Possono spostarsi stando ferme, per dire. Magari perché d’inverno fa freddo e vengono ritirate in veranda, magari invece per prendersi un’acquazzone primaverile che pulisca foglie e pori, magari spesso per traslochi in altri balconi o in altre città. Non è che amino farlo, ma le radici non sono un impedimento. 
L’altro giorno, costeggiando a piedi un piccolissimo luna park di quartiere, mi sono accorta che, proprio davanti a uno dei camper dove vivono i giostrai e i loro famigliari, a fianco di un tappetino consumato con scritto welcome, stava a prendersi il fresco della sera un ficus benjamina nel suo vaso di plastica.

Oggi qui, domani chissà, dentro e fuori dal camper insieme allo zerbino e a un’idea di casa, mobile, ma molto precisa e, a suo modo, consolante. E ho pensato due cose. La prima è che quelli che si spostano, per desiderio o per necessità, forse ci provano sempre, a ricrearsi intorno un micromondo familiare, una specie di vaso di plastica dove ci si sente (o si prova) a sentirsi a casa. Per i più fortunati c’è un camper con uno zerbino e una pianta, per molti molti altri, ci sono delle fotografie in tasca, o una catenina appesa al collo, o una lettera d'amore. La seconda cosa che ho pensato è che  casa è dove c’è una pianta di cui prendersi cura, che rende meno ignoto lo sconosciuto, meno straniero il buio, quando le luci delle giostre sono spente e solo i lampioni illuminano il parco.

p.s. La foto in copertina, come tutti saprete, è un fotogramma di Leon, che racconta con molto struggimento di case perdute e ansietà di radici.

giovedì 21 aprile 2016

Le signore.


Sono un po’ di tutte le età, ma con qualche caratteristica che le accomuna. Di solito hanno i capelli corti o medi, di solito mani forti, di solito tv accesa in casa e sempre un pezzetto di fuori, fuori. Di solito un gatto o due, o un cane sovrappeso. Meno frequentemente, il diamantino in gabbia. In città sono spesso portinaie, custodi di stabili più o meno eleganti, vestono di grigio o di marrone, ma anche con felpe colorate, e non se ne curano granché. Sono anche pensionate, o nonne giovani, o madri (o mogli) di ristoratori, pensionati con la passione dell’orto, o ferramenta con il cortile sul retro. Amano i giornali di gossip e fanno volentieri il caffè.
Le “signore” coltivano a piano terra (come sento che dovrebbe essere), anche se spesso in vaso, lasciando la casa in ordine e vuota di esperimenti botanici. Quelle che ho incontrato io sono sciamane, anche se non credo gradirebbero la definizione, e vivono in un mondo magico di rose ipertrofiche e talee divenute baobab, tutte piante che hanno una storia spesso miracolosa, strana e che non inizia quasi mai da un fioraio o in un vivaio. 
Dalla variazione infinita sul tema del “ ecco, questa l’ho trovata nel cassonetto, quell’altra me l’ha data moribonda la signora del terzo piano, quella era al cimitero, non la bagnava nessuno”, fino al seme di avocado, nespolo, albicocco divenuti graziosi alberelli. Dalle ortensie che vivono felici, anche se misteriosamente esposte a sud, alle forsizie potate ad alberello “massì, ho tagliato un po’ di qua un po’ di là”, fino al salice spettacolare nato da un rametto levigato “del mazzo di fiori di mia figlia. L’ho messo nella terra e puf!”. Le signore hanno il dono. Quel che piantano, cresce, e cresce forte, che si vede che ne ha piacere, di star lì.
Le signore si sporcano le mani e “sanno” le piante, senza spesso saperne neppure i nomi, e quando ingenuamente ti trovi a correggerle “no, signora, non è una gardenia, è un’ortensia”, dopo un secondo vorresti sotterrarti, come, nella prima guerra mondiale, un dottorino di primo pelo di fronte a una bracciuta infermiera da campo. Quel che si può fare, con le signore, oltre ad ammirarne l’opera, è chiedere semi o talee, o “piantini”, di cui sono prodighe e fiere dispensatrici. Di più, è quasi sempre inutile. I loro consigli, sempre che ne diano, di solito valgono solo per loro, in quella combinazione astrale sotto cui prospera il loro giardino incantato. Perché quando chiedi il perché e il come, loro già si annoiano (“non è che c’è molto da dire, basta fare”). E quando ti dicono , è anche peggio. 
L'altroieri, per dire, la signora Valeria, che vive in una minuscola casa da fiaba di cui presto racconterò, guardando con amore un po’ ruvido il suo rigoglioso ulivo in vaso, mi ha detto così: “lo bagno quando sopra la terra è secca, ma sotto le radici sono ancora un po’ umide, solo un po’ eh. Perché se la terra è secca tutta è troppo tardi, ma se è tutta umida è peggio”. Io sono rimasta piuttosto confusa, ma lei e l’ulivo, di sicuro, si sono capiti benissimo.
p.s. La foto non è molto giusta, ma generalmente le signore non amano farsi fotografare.

mercoledì 13 aprile 2016

Piante da pianerottolo.

A essere di poche pretese, discreti, umili e pazienti, magari si guadagna il Paradiso, ma in Terra non granché. Finisce che tutti (persino gli stessi interessati) diano per scontata un’esistenza opaca, una vita a basso voltaggio, su cui la polvere si posa inesorabile, giorno dopo giorno dopo giorno.
Succede alle piante da pianerottolo, illuminate da luce filtrata o artificiale, alle piante dei cavedi e a quelle nate per nascondere i bidoni dell’immondizia in cortili male illuminati. Succede alle piante degli autogrill, ma anche a certe d’appartamento, pretenziose e mai amate, doni non graditi di cene mal digerite, condannate a vivere (lunghe) vite inutili, grottescamente ornate da fiocchi di plastica lisi, che nessuno mai si è preso la briga di tagliare. Succede ai lunghi potos sfilacciati, su mensole altissime di pizzerie senza finestre,e a quelle impolverate di sale d’aspetto di medici affollati e ritardatari.  In vasi troppo stretti, mai concimate, bagnate a caso. Così poco importanti da non meritarsi nemmeno il percorso pietoso verso il sacco dell'immondizia. Simboli di un decoro superficiale e demodé. Eppure incredibilmente attaccate alla vita, e già solo per questo meritevoli di una fugace attenzione, e di qualche riga.
Così, qualche giorno fa, ho deciso che lo spelacchiato tronchetto della felicità che mi segue da quasi 15 anni per una sorta di ineluttabilità degli eventi (come certe vecchie padelle rigate che ritoviamo in ogni trasloco, pronte a quello dopo), aveva diritto a un rinvaso. Non a molto di più, solo a un rinvaso e a una pioggia d’acqua corrente sulle foglie. Mi è sembrato per qualche istante grato ed emozionato, come le mucche liberate dagli allevamenti intensivi dei video di youtube. Incredule e timide, le radici hanno preso la loro strada, e io mi sono sentita decisamente meglio per qualche minuto. Lui chissà. Mi è parso quasi subito impolverato, asfittico e inutile come sempre. 
Ma come dargli torto, dopo tanti anni, non è che si cambia più.

giovedì 7 aprile 2016

Qualcosa è cambiato, qualcosa no.


La differenza principale rispetto a prima è che ora ho un balcone a sud.  Amo le asparagine e i falsi papiri, sempre le aquilegie, le muehlenbeckie, i nastri (falangi) e le edere, con cui però ho un feeling discontinuo e precario. Ho quasi del tutto rinunciato alle aromatiche che mi sono sempre apparse in vaso stentate e filamentose, e che comunque non so usare nelle frittate. Dimentico quasi tutti i fiorellini stagionali, dalle primule alle petunie alle belle di vetro (quando avrò un giardino ne riparleremo). Persevero mio malgrado con le kalanchoe rinselvatichite che mi amano davvero e di questo amore  sono premiate. Lascio le piccole rose che mi seguono da anni fiorire stentatamente, ma pervicacemente, e le ricambio con poco concime e qualche spruzzata politicamente scorretta. Continuo a trascurare serenamente le due o tre grasse che hanno vissuto con me un po’ dappertutto e che sono convinta verrebbero uccise da un improvviso prodigarsi di attenzioni. Guardo la vite vergine e il caprifoglio, rasati a zero al terzo trasloco, germogliare timidamente, increduli di una nuova primavera e di un po’ di pace. Cerco l’ombra per le mie saxifraghe stolonifere, che sognano sottobosco e profumo di terra bagnata. Io, da parte mia,  sogno i selvaggi balconi di Barcellona e provo a replicarli un po’ come riesco, in un tempo elastico sottratto alle cose concrete. Pianto minuscole creature in vasetti di fibra vegetale, perché ora ho due bambini ed è forse (anche) così che si insegna a stare al mondo. E sempre scrivo, riscrivo nella mente, e rimodello, a parole volanti, quelle storie zen che le piante continuamente mi sussurranno. Qualcuna me la dimentico, qualcuna no.
C’è la primavera, una nuova casa, con un balcone orientato a sud, e grande luce. Forse si può ricominciare a scrivere di giardinaggio sentimentale.