Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


venerdì 16 novembre 2012

Window garden.

 (sto cercando immagini di window garden e extreeme garden, tipo microgiardini, giardini per chi non ha spazio, orti per chi abita all'ottavo piano etc. etc. Mi aiutate?)


Per varie ragioni impegnata altrove rispetto a terra e innaffiatoi (e la stagione aiuta, a non sentirsi in colpa), i giardini in questo periodo non sono al centro dei miei pensieri, sono laterali o periferici. Ma ci sono sempre, e c'è sempre questo luogo sentimentale.
Quindi continua il mio viaggio tra quello che mi fa commuovere o emozionare o trarre vaghe storielle morali tra foglie e fiori. È solo un pochino più lento, ma sempre appassionato. Ora mi appassionano i giardini da finestra, per dire.

venerdì 12 ottobre 2012

Serendipity nel bosco.



Una parola che amo molto non è italiana,  non ha nessun corrispondente a mio parere nella nostra lingua e quindi alla fine non la uso mai. Rimane una di quelle parole che aleggiano silenziose a definire concetti che raramente vengono espressi, ma che non per questo sono meno veri o potenti.
Le parole non riescono a definire tutto, e forse per fortuna. Lo scarto tra quello che sentiamo e quello che diciamo ci dà un po' di confusione, ma è lì che spesso nascono le poesie (dalle valenze coperte e vagabonde).
C'è chi ha definito la serendipity in questo modo


« Serendipity is looking in a haystack for a needle and discovering a farmer's daughter. » 
Cercare un ago nel pagliaio e trovare la figlia del fattore.

Serendipity, che poi è anglosassone per modo di dire, perché deriva da un termine persiano, sta tutta in questa tensione tra cercare e trovare.
Cerchi una cosa e ne trovi un'altra, più bella e preziosa o strana e inaspettata. Una specie di magia sostitutiva, di cui si è appropriata anche la scienza, quella "dura", per definire tutte le scoperte avvenute per caso, cercando, appunto, altro.

Serendipity è anche un'attitudine mentale (cerca di raggiungere le Indie, troverai l'America, come diceva Andrea Zanzotto), un esercizio di concentrazione "alla rovescia", che libera l'intuizione, ed è, in assoluto il tipo di atteggiamento da usare per innamorarsi e per trovare quadrifogli e funghi.
 
 
 I grandi fungaioli dicono che bisogno distrarre il bosco, distraendosi. Ecco che allora il bosco, rilassato, non nasconde più i suoi tesori, ma li fa trovare proprio lì, davanti al passo.
 
 Io amo pensare mio padre come un maestro di serendipity.

mercoledì 19 settembre 2012

Urban jungle sui canali.


Grazie alla mia amica Maureen, il cui sguardo mi somiglia e mi salva guardando negli altrove (che sia Genova o New York o chissà) quando io sono ferma in una Milano che mi sta un po' stretta, insomma, grazie a lei, una finestra inaspettata su Amsterdam e su tutto il mondo vegetale che cresce domestico selvatico e sempre un po' fuori dalle righe (o canali che siano).

Mi piace pensare che le città di canali abbiano un bel rapporto libero con le loro piante.
















giovedì 6 settembre 2012

Regole e keiki.



Io sono convinta di tutte quelle belle e giuste cose edificanti che come parabole vengono raccontate e ri-raccontate. Sono convinta della necessità di seguire delle regole, nel giardino e sul balcone -e anche in altri luoghi.

Sono convinta che non ho letto abbastanza la garzantina di giardinaggio e altri libri obbligatori (ho letto però, fino a cavarmi gli occhi, il forum di giardinaggio.it).
Sono convinta di cose banali, tipo che con troppa acqua le piante in vaso annegano, marciscono e che con troppo poca soffrono e seccano. Lo so dalle elementari, come tutti.

Eppure, il mio ritorno dopo questa lunga e strana estate ha messo in crisi molte delle mie certezze.
Da sole, nell'estate più calda degli ultimi anni, le piante del terrazzo se la sono cavata egregiamente. Molto meglio, oso dire, che se le avessi covate ogni giorno con concime e annaffiatoio. Certo, avevano l'irrigatore automatico, ma impostato sul minimo necessario alla sopravvivenza onde evitare inondazioni ferragostane di sottostanti.
Ecco cosa ho trovato:
Rose più fiorite di quando sono partita.
Glicine rigoglioso.
Camelia in ottima forma
Bambù belli piena di lifa e foglie

Ma soprattutto.

Soprattutto.

Orchidea phalenopsis, abbandonata rovesciata o quasi in sottovaso riempito d'acqua, meravigliosa, lucida e con un nuovo emozionante piccolo keiki (il primo della sua e della mia vita).


Sul ballatoio, poi, la situazione è ancora più sorprendente. In questo caso le piante, non solo bagnate, ma stra-bagnate da chi di dovere e dalla generosità dei vicini, invece di marcire e annegare, sono diventate una jungla lussureggiante di mille verdi diversi. Mai state così belle, così sane e così felici.

Regole o keiki? Non so.

venerdì 3 agosto 2012

Stanno tutti bene.

Anche il resto del ballatoio trascorre un lunga estate senza il mio sguardo. Ma poi torno.
grazie ancora a Eugenio

martedì 24 luglio 2012

Pomodori in fotografia.


 grazie a Eugenio per la coltivazione e la foto.

Per vari motivi lontana da terrazzo, ballatoio, isola, Milano, Lombardia. In luogo virente e campestre. Le piante affidate a cure amorevoli vivono in questo periodo senza di me, come bambini in kinderheim o cani in pensione. Qualcuna penso soffra, altre credo sinceramente di no. Per di più, a dire il vero, non ho fioriture spettacolari da perdere o eventi eccezionali che mi fanno rimpiangere il momentaneo allontanamento. Ci sarà (forse) qualche bocciolo di rosa inglese, sicuramente la vite vergine si sarà spinta a colonizzare il cielo ancora più di quanto è sua abitudine. Forse le hoste staranno timidamente fiorendo lunghi steli pallidi. Le cappuccine? Loro sì, saranno cascate arancioni, e mi spiace perdermi un poco dei fuochi artificiali.

Ma più di tutti, tutti, i pomodori. Li ho piantati dopo lunge resistenze personali -tutt'oggi non sono di quelle che credono realmente all'orto da terrazzo.  Ritengo pervicacemente che l'urban orto sia  troppo spesso un gioco radical chic, tranne quando si hanno bambini a cui mostrare il miracolo della nascita dei cibi. Odio le grosse latte da sugo all'ingrosso, dove far crescere le zucchine (a meno che non siano davvero state trovate in ricicleria). Odio quasi sempre le pose da urban farmer. Eppure, i miei (ora rossi) pomodori mi fanno venire le lacrime agli occhi dall'emozione, e mi dispiace averli potuti vedere maturi solo in fotografia.


mercoledì 4 luglio 2012

Verde mare.



Credo cercherò più blu (e azzurro, turchino, acquamarina...) che verde, ma non si può mai sapere cosa si incrocia per strada. Di sicuro mirto.
Eh sì, vado una settimana in Sardegna, proprio adesso che i pomodori da balcone stavano quasi per diventare rossi. Me ne farò una ragione.

giovedì 28 giugno 2012

Nordovest bardato di stelle.


Paolo Conte è un signore gentile e schivo, che quando è in piedi a cantare non sa dove mettere le mani, che si nasconde dietro il pianoforte a coda con vezzi da piemontese, e si nasconde tra le mani alle mani che applaudono, è elegante di nero vestito e ha una faccia faccia, di quelle che basterebbe. Con una faccia così, già scrivi una storia, persino se non scrivessi canzoni.

Polmone o cuore, "eccitata e ninfomane", l'orchestra pulsa come organo entropico, e per me, che non capisco il jazz, ho sempre voglia di fare la pipì, e la musica in generale la sento solo tra stomaco e pelle, è così che risuona, come una questione che centra soltanto con la densità dell'aria e finalmente la mancanza di vuoto, o di rarefazione
A Villa Arconati, tra zanzare e campi e una città che trascolora in nulla di nostalgia d'altrove, e leoni di pietra come sfingi smemorate di segreti, Paolo Conte si è dato, un po'. Non troppo. Con quella discrezione antica che non fa spingere sull'acceleratore quasi mai, e quando lo fa, nasconde la faccia e dice basta con le mani, ha lasciato, in me, un'ansia di pioggia, come quando nelle campagne il vento e i tuoni e l'elettricità e il profumo intenso di terra sono presagio tradito di temporale imploso. E i matti restano matti, e i cani torvi tornano a dormire nervosi nelle loro botti di lamiera.

Così l'emozione cresce come pasta lievitata senza mai liberarsi in catarsi. Pungolata, eccitata e poi fermata all'improvviso, l'emozione un poco intossica, e si ferma nelle vene delle braccia (o dallo stomaco arriva in gola, senza uscire in ululati o canto).

Per me, piemontese di nordovest, è familiare e conosciuta la geografia emozionale di strade gelate e paracarri, aranciate al bar, lune e aie e buio che sa di lontano. Diavolo Rosso è la narrazione di un luogo preciso e di alberi genealogici di lavoro, fatica e parole poche, dove il sentimento è lancinante e trattenuto, e la voce esce forte e alta e stonata solo nelle chiese, la domenica mattina.
Le chitarre ossessive, la ripetizione, l'ammaestramento di emozioni ritmiche sono l'unica concessione possibile a una catarsi tenuta alla catena come cane da pagliaio.

Perchè, insomma, non facciamola lunga.

Quelle bambine bionde
con quegli anellini alle orecchie
tutte spose che partoriranno
uomini grossi come alberi
che quando cercherai di conviencerli
allora lo vedi che, sono proprio di legno
Diavolo rosso dimentica la strada
vieni qui con noi a bere un'aranciata
contro luce tutto il tempo se ne va…
Guarda le notti più alte
di questo nord-ovest bardato si stelle
e le piste dei carri gelate
come gli sguardi dei francesi
un valzer di vento e di paglia
la morte contadina
che risale le risaie
e fa il verso delle rane
e tutto 
arriva sulle aie bianche
come le falciatrici di raccolto
Voci dal sole altre voci,
da questa campagna altri abissi di luci
e di terra e di anima niente
più che il cavallo e il chinino
e voci e bisbigli d'albergo:
amanti di pianura
regine di corriere e paracarri
la loro, la loro discrezione antica
è acqua e miele…
Diavolo rosso dimentica la strada
viene qui con noi a bere un'aranciata
contro luce tutto il tempo se ne va…
Girano le lucciole
nei cerchi della notte…
questo buio sa di fieno e di lontano
e la canzone forse sa di ratafià…

martedì 19 giugno 2012

Trappole arboree.

 foto di Francesca
 A lungo ho riflettuto prima di decidere di scrivere su questo argomento. Troppe spine e troppa crudeltà secolare, come tagliole sotto le foglie o castelli incantati di principesse folli. Sicuramente troppa morte.
Ora non più. I roccoli, da qualche tempo, hanno perso quasi ovunque la loro caratteristica di essere trappole arboree per uccellini distratti, e sono diventati luoghi di avvistamento, inanellamento e di protezione.


Non hanno perso, invece, il fascino di architetture vegetali incantate, simili a cattedrali o a luoghi di culto silvani o a progetti di land art di qualche medioevo da signore degli anelli. Compaiono all'improvviso, su una collina, come fossero stonehenge vegetali abbandonati. Disorientano e un poco perturbano per l'ibridazione tra morte e vita e tra costruzione (dis)umana e lussureggiante vita boschiva.


Oggi i passeri nidificano sui rami contorti, senza compagnia alcuna di specchietti per le allodole, ma noi, entrando, parliamo a bassa voce, con rispetto.


giovedì 14 giugno 2012

Il funerale della balena.


Forse avrebbe preferito alghe e anemoni di mare, ad accompagnare l'ultimo viaggio, e schiere ordinate di pesci pilota, nuvole lattiginose di plancton, Giona, Achab e anche Pinocchio in corteo silenzioso. Forse invece non gliene importa niente, come è probabile un po' in generale.
Ma fa bene al (nostro) cuore sapere che da qualche parte, nel mondo, si celebra il funerale di una grossa balena, tra lacrime e lanci di fiori di giardino, come al matrimonio di una sposa in sovrappeso.
Dal Corriere.

sabato 9 giugno 2012

Fiori e miracoli (a Le Havre).


È uscito già da un bel po' e tutti ne hanno parlato. Sono io a essere anacronistica, e se questo fosse uno spazio con ambizioni up-to-date, non sarebbe il caso di parlarne ora. Ma nel mio spazio le suggestioni arrivano quando arrivano.
In Miracolo a Le Havre, come in quasi tutte le cose belle, ognuno può trovare un proprio percorso di sguardo, attraversarlo secondo sensibilità e nostalgie o tenerezze personali. Io l'ho guardato ieri, e poi di nuovo oggi a fotogrammi.
C'è la storia, naturalmente, carica di una poesia essenziale e salvifica. C'è una specie di fiducia nelle piccole cose. Un grande amore, una grande amicizia, un bellissimo rapporto con un cane femmina intelligente e partecipante. I bar, i tipi da bar, il porto, le signore sfiorite e sempre meravigliosamente piene di linfa come spesso sono le francesi. Gli africani e i poliziotti e i pescatori. La malattia, la speranza e tanti miracoli (non solo uno). C'è persino un ananas.


Su tutto, una luce accarezzante che si posa su persone e cose, dagli interni pastello, alle tendine ai vasi poveri anni 50, alle strade di notte. E una dignità del vivere che arriva immediata, e consola senza essere consolante.

E poi ci sono i fiori, presenza discreta e costante. Fiori umili donati o appoggiati sul bancone di un caffé. Gialli ranuncoli o garofani stanchi, rose in vasi troppo piccoli, che svolgono perfettamente la loro funzione di agenti silenziosi del miracolo.



 

 La fiera fioraia, "manager dell'anima" di un vecchio rocker.


E naturalmente la fioritura inaspettata dell'esile ciliegio del cortile, metafora perfetta di tutti i miracoli del mondo.

lunedì 4 giugno 2012

Semi con la valigia.


 questi bellissimi semi sono in vendita qui
 
I semi sono quasi la cosa più magica che c'è. Metafora così concreta di vita in potenza e di potenza della vita, grumi di energia esplosiva (per questo le bombe di semi sono l'unica arma che concepisco e che prenderei tra le mani) e concentrati del mistero in cui viviamo immersi, esistono e si trasformano, caldi di terra, umidi di humus, risposta di speranza alle preghiere di ogni religione.
Dormono, nascono e si trasformano e poi rinascono, spinti dal vento o dal volo degli uccelli a colonizzare fazzoletti di terra o cornicioni, aree dismesse, palazzi in costruzione.
Non chiedono, ma vanno, carichi della necessità di un messaggio di qualche dio da noi dimenticato.


Dei semi occorre aver cura, come tesoro non nostro e a noi imprestato. Per questo io amo la cura, sì, la cura, di chi li impacchetta per bene, scegliendo il carattere e il disegno. Di chi scrive delle storie, e le istruzioni -la luce, i capricci, la descrizione di cosa saranno e quello che vorranno.



E vorrei, in un tempo non troppo futuro, scrivere le loro storie, su pacchetti di carta da pane, e mandarli per il loro mondo con un piccolo bagaglio.

sabato 26 maggio 2012

Rivivaio: rifugio per piante abbandonate.

 per la foto, grazie a Massimiliano Piantini

"Ho passato l'estate a svuotare la casa di mia madre che non c'è più.
La cosa per me dolorosa è dover rinunciare alle sue piante sul terrazzo: oleandri, 2 fichi, 2 peschi, nespoli ormai giovani alberi, molto milanesi perchè nati da un seme e poi cresciuti negli anni, resistenti a pm10, gelate ed inquinamento vario. Gettarli, ucciderli mi è veramente doloroso. Soprattutto perchè le amava.

Perchè tramite Amsa non inventate un servizio di ritiro, una serra, un giardino di piante da regalare o vendere ad un prezzo simbolico x autofinanziarsi, alberi da ripiantare nei parchi, nelle aiuole, di milanesi che non ci sono più ma che hanno piante dimenticate in appartamenti vuoti? Una targhetta, un nome, un albero. Chissà...".

 E già. Come i gatti panciuti e i piccoli botoli pelo raso, anche le piante, a un certo punto, restano sole nelle case e balconi deserti. Le vecchie signore andate via, in qualche ricovero o in qualche altro luogo.
Orfane delle cure, e di quella tranquillizzante benefica routine fatti di piccoli gesti sempre uguali e di innaffiatoi leggeri, le piante, nate da un seme o regalo dei nipoti, rassegnate, non miagolano o abbaiano. Stanno lì, a morire di sete fino all'arrivo del camioncino della nettezza urbana.

O invece no. Perché grazie all'idea della signora che ha mandato questa lettera al comune di Milano, ora le piante lasciate da sole hanno il loro rifugio, che si chiama Rivivaio. E chi vuole può andarsele ad adottare, come si adotta un vecchio barboncino o una gatta nera.

mercoledì 23 maggio 2012

Innaffiare il martedì -2.


Ok, è mercoledì. Lei è una piccola perfetta giardiniera, che cura il suo giardino con costanza e sentimento e con una determinazione da animaletto serio e appassionato.

lunedì 21 maggio 2012

Orticola è femmina: petali e cappelli.



Orticola è finita già da un po', lasciandosi dietro (proprio come la trombetta di Corrado Govoni), petali e cappelli e un'ansia di fiori difficilmente guaribile persino con i fiori di Bach.


Snob, cara, aristocratica e tutti quegli aggettivi che spesso l'accompagnano nei discorsi. Eppure a me, che amo i giardini poveri e "domestici" sopra ogni cosa, in maniera palesemente contraddittoria genera una fascinazione quasi ossessiva lo spudorato palesarsi delle erbe più rare, dei vivaisti collezionisti dalla erre moscia, dei roseti temporanei e perfetti e dei delicatissimi fiori muscati dal profumo di bosco e nostalgia.


All'inaugurazione, dopo un primo momento di stordimento e l'impressione di essere finita ad Ascot o in qualche matrimonio inglese, mi sono goduta forse più la fauna che la flora, però (non senza qualche punta acuminata di moralismo comunista pauperista che sempre mi contraddistingue, e vivaddio).







E così ho capito una volta per tutte che Orticola è femmina, in tutte le sfaccettature: da quella mondana, a quella aristocratica, a quella vorrei ma non posso, a quella un tantino grottesca, a quella creativa, fino a quella magnifica e combattente delle coltivatrici (non me ne vogliano i maschi).


Di tutte, alla fine, sono rimasta però affascinata da una signora romana dalla voce decisa, roca di sigarette che, senza fronzoli e senza cappelli, ma con molti petali, mostrava le sue mille varietà di pelargoni da collezione, profumati di fave o di limone.

E, su ognuno, descrizioni semplici, tecniche e insieme così evocative che, da tutt'altra parte rispetto a ogni forma di mondanità, riassumevano perfettamente il mio concetto di giardinaggio: un sacco di bellezza, e un sacco di rigore.

le foto sono mie, ma se qualcuna si dovesse riconoscere e non volesse stare qui, mi scriva e tolgo immediatamente.

mercoledì 16 maggio 2012

Dai diamanti non nasce niente.

 
Dal letame nascono fiori. 

Ammetto di essere molto affezionata a questo verso di De André, che ho ascoltato innumerevoli volte e ho anche visto scritto su un muro di via del Campo, nei vicoli del centro storico di Genova, insomma, ammetto che soprattutto motivi squisitamente sentimentali e anche un po' superficiali mi hanno condotto a farmi regalare il libro di Serena Dandini. Di solito non leggo volentieri i libri di persone televisive, neanche quando sono culturally and intellectually correct and approved come lei. Ci vedo sempre quel poco di opportunismo e di flash di macchine foto e cerone.
Invece è stata una sorpresa piacevole.
Primo perché è di facile facilissima lettura, e questo non guasta, inutile fare gli snob.
Secondo perché ci si riconosce dentro una vera passione un po' disordinata e onnivora e sentimentale, e io mi sono riconosciuta.
Terzo perché è zeppo di aneddoti stravaganti o teneri, raccontati senza troppo indugiare, e uno si trova a pensare che sarebbe bello leggere (o scrivere) un libro su ognuno di questi.
Quarto perché, senza mai salire in nessun tipo di cattedra, racconta dei fiori per parlare di resistenza, educazione e civiltà, e insieme non dimentica di parlare di fiori.
Quinto perché a un certo punto, e inaspettatamente, compare la grafia spigolosa e molto maschile di Fabrizio De André che disegna il suo campo all'Agnata e scandisce i ritmi dei concimi per azalee e alberi da frutto (molto letame, nessun diamante).

L'ho letto in due giorni due e un po' mi è dispiaciuto di averci messo così poco.

mercoledì 9 maggio 2012

Nella terra si vede molto più cielo.


A Milano nel 2015 ci sarà un'esposizione. Di cosa, non è dato capirlo, almeno a me. Sicuro non verrà esposta una tour Eiffel, come nell'esposizione universale di Parigi, e non mi sembra nemmeno che sarà esposto un progetto, un sogno o una visione di qualche futuro possibile. Fosse così,  potrebbe non essere condivisibile, ma comprensibile magari sì.
Mi sembra piuttosto che a essere esposta sia un'arroganza miope, avida, e soprattutto anacronistica, che si materializza in cemento armato e grattacieli vuoti, costruiti su parchi e boschetti di quartiere e proprio davanti a piccole case a cui è cambiato il clima, la luce e la direzione dei venti.

È finito, è passato, il tempo dei grattacieli e della loro proterva fiducia nelle magnifiche sorti e progressive. Non hanno più senso, se non per gli speculatori e per i conti bancari di qualche impolverata archi-star, sono terribilmente indietro, oppositivi e passatisti, rispetto ai tempi che stiamo vivendo. Muri che rendono più difficile lanciare lo sguardo verso orizzonti possibili, nati già vecchi (vedo la ruggine), così privi di fantasia e di qualsiasi necessità, così simili a quelle statue che negli autunni dei colonnelli venivano erette per nascondere una fine bolsa e ingloriosa.
Ai loro piedi, per fortuna, le erbe anarchiche, meticolose e resilienti, non mollano di tessere le loro radici disubbidienti.
 Macao, sotto la Torre Galfa
 Un po' dappertutto, a ben vedere, crescono progetti la cui forza sta nell'essere così incredibilmente più necessari, e ibridi, e fantasiosi e vivi.


 
 Isola Pepe Verde, davanti ai grattacieli di Porta Nuova

Se si guarda a livello della terra, si vede molto ma molto più cielo.
 Per le foto, mille grazie a Macao e a Milanoisola