Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


venerdì 17 settembre 2021

Nella siccità ci salvano i dettagli.

 



Solo adesso che forse si è interrotta, riesco a scrivere qualche riga su questa estenuante mancanza d’acqua che ha colpito come un incantesimo il mio giardino, i prati circostanti, una parte d’Italia, sicuramente molte parti del mondo, il mio sguardo e anche il mio umore.

La terra assetata ormai non chiede più. Sta ferma, come le lucertole del deserto dei documentari della BBC o i sadhu scheletrici e allucinati delle alte vie nepalesi.  Non si muove, non comunica, sembra non respirare, tutta tesa alla conservazione della vita nella sua essenza minima, in un’attesa paziente e priva di aspettativa. Penso distrattamente alla desesperanza di Alvaro Mutis.

Il paesaggio sembra sospeso in una dimensione remota, immobile e invariato, se non fosse per questo autunno fuori sincrono, che colora le foglie di giallo e le accartoccia, mentre un sole pallido e spietato non molla la presa. La polvere veste ogni arbusto e filo d’erba, difficile trovare un appiglio per lo sguardo, difficile trovare persino la voglia di guardare.

La Melusina tiene, almeno secondo i miei umanissimi parametri. Quello che ho piantato resiste, aiutato dal miracoloso pozzo salvato dal cemento e ripulito dal Bragheis qualche mese fa. Con i proiettili dei partigiani, i fiaschi di vino, i mattoni rotti, le boccette di profumo e di ansiolitico, persino un grosso rospo, è uscita anche l’acqua, ben di più di quella che credevamo, regalo quotidiano delle profondità, tesoro di cui ancora siamo increduli e per sempre grati. La teniamo preziosa, nutrimento per l’inevitabile, soccorso d’emergenza per le piante più sofferenti, e spesso la rimandiamo, se appena appena si può.

Sto imparando molte cose dalla siccità, in questo mio microcosmo appena nato, dove quasi nulla ha radici sufficientemente forti e profonde da intraprendere lunghi viaggi sotterranei tra pietre e argilla. Gli abitanti della Melusina, almeno la maggior parte,  sono vivi solo da un inverno, o nemmeno, e affrontano con coraggio, ma con scarse risorse personali questo mondo faticoso in cui è toccato loro diventare adulti.  Alcune piccole perenni sembrano a loro agio anche così, e quasi non hanno bisogno delle mie apprensive attenzioni mattutine. L’orto, aiutato da una spessa pacciamatura di fieno e da una sorta di millenaria abitudine ai capricci divini, resiste un po’ ammaccato e non tanto bello da vedere, ma ancora colmo di pomodori e zucchini, con eroiche zinnie a fare da contorno. I girasoli, invece no. Li ho seminati questa primavera, caricati di responsabilità enormi, investiti del ruolo scomodo di “trombe d’oro della solarità”, guardiani di un’idea allegra e naif di orto-giardino da sussidiario delle elementari. Per un po’ di tempo le loro gigantesche corolle e i lunghissimi fusti hanno corrisposto alle aspettative, ma ora si sono trasformati in tristi spaventapasseri curvi sotto il peso della disillusione. Li taglierò, per poi riporre le stesse speranze nei nascituri dell’anno prossimo, e così via.

Le rose hanno confermato la loro indomabile natura selvatica: per quanto vezzeggiate, selezionate, potate e disperatamente viziate,  rovi erano e rovi rimangono e, come i gatti, in fondo nulla temono.

Poi lavande e rosmarini, verbene bonariensis, gaure esili e immortali, adorabili spiree dai corimbi rosa rinascimentale, alte e sfumate achillee, alchechengi lampeggianti, l’enorme e imperioso calicanto dell’ingresso, i minuscoli erigeron, il sorprendente geranium rozanne, l’invadente e graziosa impatiens balfourii e su tutte l’euphorbia carachas che penso chieda al cielo ogni mattina di ritardare ancora il pianto.

Le talee amatissime del giardino di mia nonna, i capelveneri mia sfida vinta, le piante d’appartamento in villeggiatura estiva e la capricciosa ed esigente brugmansia di cui sono diventata sacerdotessa vivono invece in un mondo parallelo, in cui una allegra pioggerellina artificiale scende benefica ogni giorno, più o meno alla stessa ora, da un verde innaffiatoio a forma di coniglio. La giustizia non è di questo mondo.

E poi. Succede che, mentre affaticata percorro in salita il prato scricchiolante di erba secca, mi appare, sotto il vecchio ciliegio, il capolino rosato di un ciclamino selvatico, umido di una rugiada boschiva prodotta da qualche minuscola fata solo per lui, in tutto l’universo.

Quando la sera tardi, prima di dormire, lancio un ultimo sguardo mentale al giardino assetato, è lui che mi appare, lucina nel buio, speranza incongrua e paradossale. Conta poco la visione d’insieme. Ci salvano i dettagli.