Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


martedì 8 dicembre 2020

La rosa sevillana o della gioia di vivere.

 

Qualche giorno fa ho potato le rose, le rose native, quelle che c’erano prima, prima che il nostro sguardo si appoggiasse qui, tra fiume e collina. Le rose colorate e chiassose, senza nome di battesimo o pedigree, senza studio e ricerca, e che pure, da sole, hanno permesso a questo pezzo di terra di continuare a chiamarsi giardino, anche quando intorno erano fango e macerie. Quelle rose in prima fila, davanti alla casa, io non le avrei mai piantate, non così, non in quella posizione, non con quei colori. Addirittura, ancora forestiera e presuntuosa, i primi tempi mi sono aggirata con sguardo occhiuto a decretarne la vita o la morte, per poi tornare sui miei, metaforici e reali, passi e giudicare che, senza il loro aiuto, il giardino sarebbe stato solo un'idea, per quanto forse un'idea più ortodossa. Come per tante altre cose, le ha salvate la forza dell'inerzia, e senza dubbio anche il loro portato di libertà, ché salva spesso scoprire come è utile e bello venire contraddetti e come non si sappia nulla, prima di saperlo. Loro, vecchie signore non molto perbene, sedute davanti al muretto di pietre e mattoni, come prima, come sempre, hanno tronchi nodosi resistenti alle cesoie e  grosse spine innocenti e micidiali e stanno lì, a sorvegliare il prato e a dettare la musica di un'ipotetica e arruffata "mixed border".

 

E poi, la sevillana, "amante di pianura, regina di corriere e paracarri" dalla grazia rigida di ballerina di flamenco, rossa senza speranza, senza sfumature e senza narrazione, bambola di paese pronta a farsi un giro con chi glielo chiede. La sevillana, rosa del benzinaio per eccellenza, offriva, prima della neve, ancora tutta una teoria di petali e bacche, e docile si è sottomessa al taglio. La sua posizione così centrale nelle foto di gruppo, fuori posto come una lontana zia o un aggettivo sbagliato l’ha messa in pericolo tante volte. Per la verità la mette in pericolo ogni volta che lo sguardo si sofferma sul suo abito rosso. Perché è la sevillana a introdurre al giardino, come l'incipit di un libro,  ed è inevitabile domandarmi se davvero sia lei la chiave della Melusina. Eppure, come ormai ho imparato, ogni cosa è più saggia di me e tutto si autodetermina porgendomi la soluzione come improbabile vaticinio.

In definitiva, quello che la sevillana mi ha insegnato è che niente è più protettivo della gioia di vivere, efficacissima strategia di stare al mondo,  non dissimile dagli occhi grandi e dalle zampe morbide dei cuccioli di ogni specie. Per questo, per il suo inscalfibile ottimismo e la sua vitalità musicale, la ballerina di flamenco starà al suo posto fin che lo vorrà, a rovinare la grazia virginale di tenui colori pastello con la sua ampia gonna sempre sollevata e il trucco un poco sbavato. 


 

 

mercoledì 2 dicembre 2020

E liberaci dai contorni.

   
 
Identica a se stessa dall’inizio dei tempi, rende identica ogni cosa, cancella rumore e definizioni, nasconde plastiche, lamiere e mostri architettonici, rende gemelli pero, melo e se il forcone è rimasto fuori, rende gemello anche lui. La neve copre le aiuole e l’orto, i sentieri e i marciapiedi, come un orologiaio riporta indietro le lancette a prima dell’asfalto e del cemento armato, a prima ancora, in un tempo sospeso, e azzerato. Solo il mutare delle pennellate di luce ricorda che nulla è fermo, persino quando lo sembra, e lo ricordano anche gli alberi, che si scrollano come cani bagnati, e i voli temerari di pochi uccelli. Insieme ai rami di inchiostro, diventano protagonisti pali della luce e fili dell’alta tensione, generoso insperato mimetismo naturale.
 
Ringrazio i fiocchi perché rendono uguale anche me, mi ammantano di bianco, mi nascondono, cancellano mostri, temperano angoli e ammorbidiscono spigoli, mi fanno pensare pensieri banali, mille volte pensati, comporre haiku mille volte scritti, guardare luoghi e vederli identici ad altri luoghi, qui, altrove, lontano, lontanissimo persino (penso a Siberia, Canada, Appennino, a scorci di parchi cittadini, penso agli affreschi nevosi di San Fiorenzo, Palestina piemontese).

Con i fiocchi cade la presunzione, l’antipatico scudo dell’unicità. Nelle infinite fotografie, una fotografia sola, e tutti ci sentiamo un po' più liberi dai contorni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(Lo so, lo so che esiste la neve dei poveri, dei rifugiati, dei profughi, di chi non ha scarpe e macchina fotografica. Lo so, e quello che faccio –ed è niente- appendo palline di grasso ai rami per cince e verdoni).

 

lunedì 30 novembre 2020

La Melusina, una nuova vita.

 È passato del tempo, un bel salto mortale da terrazzi, balconi, davanzali milanesi a una vecchia casa con un grande giardino, persa nel "nordovest bardato di stelle", che canta Paolo Conte, e che per me rimane sempre la definizione più precisa di questi luoghi. È passato del tempo per i sogni, i progetti e le immaginazioni, un tempo di maturazione come i caki tra le mele, una specie di cova.
Ora dalla mia finestra vedo un orto, tre ciliegi, due querce, un prato e il cielo, ai miei piedi dorme un cane giallo femmina, nel vaso ci sono le rose potate l'altro ieri. 
Fuori è un'avventura. La Melusina da immaginare e da costruire, senza fretta, con i tempi suoi, che hanno molto da insegnarmi. Mi sembra bello, a un anno quasi esatto dall'astronave che ci ha portati qui da Via Bellezza, salvandoci a sorpresa dalla prigione del lock down e da tante altre cose, ricominciare a raccontare la storia e l'evoluzione del giardinaggio sentimentale.
 
Oggi, grazie a congiunture astrali e telecinesi spirituale, ho letto un'intervista a una sorprendente artista afroamericana, Betye Saar, che racconta la sua arte come "evoluzione, più che rivoluzione". Ecco, per questo blog, è un po' così.