Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


mercoledì 3 febbraio 2021

Non più e non ancora.



Non più e non ancora. Le chiazze di prato in mezzo alla neve, che ogni giorno si allargano e cambiano forma, sembrano dall’alto carte geografiche, estuari, canyon, continenti, isole alla deriva nell’oceano, ma anche nuvole in transito. Oppure il manto di un grosso animale maculato di cui si riesce a scorgere solo il dorso.  

I colori sono ancora quelli di prima, grigi, neri, bianchi e marroni, ma gli squarci di verde, come strappi nella tovaglia o patchwork imbastiti, sono sufficienti a dare paletti allo sguardo, a creare stanze e strade. Intorno agli alberi, soprattutto quelli grandi, il verde è più esteso e circolare, grazie alla vita sotterranea delle radici e al dialogo misterioso che unisce in profondità tutti i viventi.

A guardare bene, in quella superficie umida dove il fango si mischia alle foglie e i fili d’erba sono capelli di neonato, c’è già trasformazione. Forse in luoghi più vicini al sole questo è un primo vero risveglio, e un’avvisaglia dei preparativi per la nuova stagione. Qui il ritmo è lento, la canzone è ancora ninna nanna e questi impercettibili cambiamenti assomigliano di più al passaggio a una fase nuova di sonno, quella del mattino presto, dove la luce, le speranze e le nerissime paure si mescolano in un impasto onirico ancora difficile da decifrare, ma sostanza e nutrimento di un incredulo mattino.  

Persino la neve, nei punti dove ostinata sembra resistere al ciclo del tempo (ma è un’illusione, perché solo la specie umana, di tutte, si ostina, e io con lei), non è più uniforme biancore, ma, persa la giovinezza del pieno inverno, è pelle rugosa, punteggiata di macchie, passetti, orme, saltelli, persino strane sinuose andature. Increspature del vento, piccole volontà che, incoraggiate dall’intermittente tepore tardo invernale ridanno inizio ai loro traffici o, nel caso di fate e topi ragni, cominciano il balletto delle visite di cortesia. 


Non più e non ancora. In questa terra di mezzo, il tempo dà il tempo per lunghi e nascosti riti di passaggio, canti propiziatori che arrivano alle nostre orecchie come richiami di uccelli, fruscii, scricchiolii e scrosci d’acqua dai tubi delle grondaie. Cascate continue e gocce intermittenti creano minuscoli laghetti estemporanei, l’acqua scorre discreta ai bordi del muretto e dei marciapiedi. Le foglie dei piccoli ellebori, degli epimedium coraggiosi sotto il melograno dormiente si riprendono lo spazio verticale come nulla fosse, dopo la lunga clausura, scrollandosi di dosso la neve con un’energia di steli verdi scuro che non lascia spazio al pessimismo. Altri, le giovanissime rose mutabilis,  le Penelope ancora forestiere, l’iperico (hypericum magical red flame), privato del suo giallo pirotecnico, e una variegata teoria di arbustini e cespuglietti emergono rotti e un po’ stropicciati. 

Strano periodo di transizione, in cui il sole e la pioggia insieme sciolgono la neve, improbabili e precari alleati al servizio della primavera.

Non più e non ancora, ed è difficile tenere a freno l’entusiasmo e non esagerare con la caccia al tesoro (vedo la punta di un bulbo, una primula, tre margherite, e i bucaneve, dove ho messo i bucaneve?). Perché basta una notte di gelo o una spuzzata di brina per ributtarci all’indietro, nella sorella disillusione. 


La volpe, stamattina, attraversava in controluce il grande prato in discesa, precisa e senza incertezze.

Forse bisognerebbe soltanto imparare da lei.  Vivere senza attendere, camminare senza cercare, andare senza anticipare, buttare gli orologi, respirare, che ogni minuto è lunghissimo se stiamo fermi a guardarlo passare. 

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