Come ippopotami o giraffe abituati a gabbie troppo strette e
a cibo garantito quotidiano, araucarie, aceri palmati e palme sonnecchiano
quasi tutto il giorno negli zoo delle villette a schiera che si susseguono –più
o meno grandi, più o meno nuove- in questo angolo di mondo, e in molti altri. Giardini rocciosi, anfore sdraiate, bordure colorate e
verdissimo prato inglese. Ogni foglia e filo d’erba addomesticati e convertiti
alla religione dell’ordine e del decoro, che niente è per caso e tutto sostiene
un’immagine da difendere. Ciò che sì è o ciò che a fatica si è diventati. Generazioni di scarpe sporche di fango e unghie di terra, di
bocche sdentate e di amara cicoria, di salire sui ciliegi e stare chini
nell’orto o a raccogliere castagne, giorno dopo giorno a diventare vecchi, e
ora è anche comprensibile, che campagna sia una brutta parola, e l'ansia di togliersi di dosso
l’odore del maiale e di legare
alla catena il labrador o il cavalier king, che di cani da pagliaio non se ne
può più, e di aie e di galline. E
sognare un appartamento al secondo piano, con veranda e balcone, a cui
appendere gerani dello stesso colore, possibilmente un po’ più belli di quelli
del vicino.
Però la primavera esce dai bordi e dalle bordure, e impone
alle creature addomesticate, complici di questo perfetto piano di espunzione
del vivo, una volontà difficilmente eludibile, un’ansia di fuga. Come vento
improvviso, la primavera spettina l’erba, semina fiori là dove non dovrebbe,
persino buca cemento e piastrelle.
Cascate di nasturzi invadono la via, viburni palla di neve si sporgono a
toccare i passanti, lillà esuberanti ricordano tempi di nonne con grembiule e fazzoletto, i glicini, soprattutto, occupano intere
cancellate e tutto lo sguardo e tutti i sensi. I cani strappano la catena e i gatti scappano per i campi perché inizia la
stagione degli amori.
E per fortuna i
soffioni vincono sempre, con i loro squillanti e disordinati fiori gialli, e non c'è tosaerba che tenga.
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