La
differenza principale rispetto a prima è che ora ho un balcone a sud. Amo le asparagine e i falsi papiri,
sempre le aquilegie, le muehlenbeckie, i nastri (falangi) e le edere, con cui
però ho un feeling discontinuo e precario. Ho quasi del tutto rinunciato alle
aromatiche che mi sono sempre apparse in vaso stentate e filamentose, e che
comunque non so usare nelle frittate. Dimentico quasi tutti i fiorellini
stagionali, dalle primule alle petunie alle belle di vetro (quando avrò un
giardino ne riparleremo). Persevero mio malgrado con le kalanchoe
rinselvatichite che mi amano davvero e di questo amore sono premiate. Lascio le piccole rose
che mi seguono da anni fiorire stentatamente, ma pervicacemente, e le ricambio
con poco concime e qualche spruzzata politicamente scorretta. Continuo a
trascurare serenamente le due o tre grasse che hanno vissuto con me un po’
dappertutto e che sono convinta verrebbero uccise da un improvviso prodigarsi
di attenzioni. Guardo la vite vergine e il caprifoglio, rasati a zero al terzo
trasloco, germogliare timidamente, increduli di una nuova primavera e di un po’
di pace. Cerco l’ombra per le mie saxifraghe stolonifere, che sognano
sottobosco e profumo di terra bagnata. Io, da parte mia, sogno i selvaggi balconi di Barcellona e
provo a replicarli un po’ come riesco, in un tempo elastico sottratto alle cose
concrete. Pianto minuscole creature in vasetti di fibra vegetale, perché ora ho
due bambini ed è forse (anche) così che si insegna a stare al mondo. E sempre
scrivo, riscrivo nella mente, e rimodello, a parole volanti, quelle storie zen
che le piante continuamente mi sussurranno. Qualcuna me la dimentico, qualcuna
no.
C’è
la primavera, una nuova casa, con un balcone orientato a sud, e grande luce.
Forse si può ricominciare a scrivere di giardinaggio sentimentale.
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