Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


martedì 25 gennaio 2022

La grande pace delle cose addormentate.

 


Quando avevo i bambini piccoli, ed ero molto, molto stanca -della stanchezza delle madri, quella delle notti e soprattutto della responsabilità nuova e schiacciante di avere costante un pensiero allarmato fuori di sé, sognavo, con la mia amica Siria, un lungo sonno collettivo. Un addormentamento -un letargo- che come un incantesimo toccasse ogni cosa intorno a me, a partire da me. Un castello della bella addormentata che comprendesse, nell’ordine, me, i miei bambini, il mio uomo, gli animali e anche il giardino, che però allora non avevo ancora.

La vertiginosa attrazione verso la sospensione assoluta, l’avverarsi dell’azzeramento del tempo, che finalmente si puntano i piedi e il fiume si ferma, invece di scivolarci tra le dita nel suo eterno indifferente scorrere. Succede certe mattine presto, quando tutti dormiamo nello stesso letto, ed è vacanza e non c’è alcuna sveglia o cosa da fare. Succedeva qualche volta nel lock down, che tutti si era lì, insieme, al riparo dagli attacchi del mondo, come in una barca, ma ferma, in un porto sicuro.

Succede qui, alla Melusina. E succede soltanto d’inverno.

L’orto dorme sotto il fieno, le rose sotto le foglie, molte perenni, addirittura, sono scomparse come talpe sotto terra e sono la fiducia e l’immaginazione a conservarle vive . Le annuali sono partite, liberando le loro scommesse, che piano piano scendono sotto forma di semi e poi risaliranno, forse, sotto forma di foglie. Gli alberelli da frutto sono nudi e si assomigliano tutti, e anche quelli che quest’estate hanno faticato, si sono ammalati, sono gelati, adesso, con le loro gemme dormienti sembrano sani e forti come gli altri. Provvisoria democrazia invernale. I vecchi ciliegi tendono le braccia verso le nuvole (a me pare a implorare qualcosa, ma certamente non è così), le querce appaiono come disegni di bambini a rigare l’orizzonte. Il calicanto è indietro, ancora restio a sprigionare il suo profumo canoro, gli ellebori sono fioriti, ma senza gran convinzione, mi sembra mi chiedano un posto migliore. Lo cercherò.

Le peonie sono una promessa, il falso papiro non rustico, ma ben pacciamato un azzardo, le aiuole degli arbusti che ho piantato a novembre sono porcospini, grandi ovali irregolari da cui escono punte marroni, indistinguibili. Gli esili carpini della siepe di confine, che non bagno mai abbastanza, finalmente non esprimono mute proteste e stanno lì, semplicemente lì. Le foglie si decompongono piano sulle bordure.

Guardo molto poco. Non scruto la terra a cercare segnali (qui una colonia nuova di centranthus, lì si scorgono le foglioline frastagliate dell’achillea), non ricordo nemmeno più dove ho piantato i bulbi, sospendo il mio sguardo da entomologa sulle gemme (sono già gonfie?). Piuttosto riempio i rami spogli di cibo per cince e merli, adoro guardare il loro frullio e mi rendono allegra i loro voli. Quest’anno, a dire il vero, finora non ne hanno avuto un gran bisogno, di grasso e semi di girasole. Non c’è la neve ad acuire la fame, i cachi sono ancora sugli alberi, come le bacche. È più un piacere, per me e per loro, una specie di festa paesana, che apposta organizzo proprio davanti ai miei occhi.

Il giardino che dorme è bello come il giardino che si risveglia. E non perché io abbia per ora colori, forme, cortecce, o addirittura fiori invernali. Il suo bello è nell’esserci senza chiedermi nulla, come un panorama in una giornata luminosa, una passeggiata nei boschi, un parco pubblico che godo senza responsabilità. Il suo bello è guardarlo dormire, immaginare che cosa succederà e quali saranno le sue sorprese, se i semi di lunaria finalmente nasceranno, se le aquilegie avranno seguito il mio consiglio, se la centaurea ricomparirà nell’aiuola delle farfalle e le nigelle si saranno propagate.

E le cosmee? Chissà. Torneranno da sole o dovranno essere aiutate?

Il piccolo ceratostigma è morto di freddo o è solo in un profondo letargo? C’è il battito?

Mi sembra così bello poter pensare alla Melusina senza far nulla, un po’ distrattamente. Un pensiero senza azione, come si guardano i bambini dormire. E mi sembra così riposante, finalmente, anche pensare a tutt’altro, per tanto tempo, senza interruzioni. Cercare in rete poesie, leggere, guardare film, cucinare meringhe e pasta frolla, magari andare dal parrucchiere, pensare a viaggi lontani, che la Melusina non ha bisogno di me, né io di lei.

E quest’anno ho persino avvolto l’ulivo nel velo da sposa, se la caverà.

venerdì 17 settembre 2021

Nella siccità ci salvano i dettagli.

 



Solo adesso che forse si è interrotta, riesco a scrivere qualche riga su questa estenuante mancanza d’acqua che ha colpito come un incantesimo il mio giardino, i prati circostanti, una parte d’Italia, sicuramente molte parti del mondo, il mio sguardo e anche il mio umore.

La terra assetata ormai non chiede più. Sta ferma, come le lucertole del deserto dei documentari della BBC o i sadhu scheletrici e allucinati delle alte vie nepalesi.  Non si muove, non comunica, sembra non respirare, tutta tesa alla conservazione della vita nella sua essenza minima, in un’attesa paziente e priva di aspettativa. Penso distrattamente alla desesperanza di Alvaro Mutis.

Il paesaggio sembra sospeso in una dimensione remota, immobile e invariato, se non fosse per questo autunno fuori sincrono, che colora le foglie di giallo e le accartoccia, mentre un sole pallido e spietato non molla la presa. La polvere veste ogni arbusto e filo d’erba, difficile trovare un appiglio per lo sguardo, difficile trovare persino la voglia di guardare.

La Melusina tiene, almeno secondo i miei umanissimi parametri. Quello che ho piantato resiste, aiutato dal miracoloso pozzo salvato dal cemento e ripulito dal Bragheis qualche mese fa. Con i proiettili dei partigiani, i fiaschi di vino, i mattoni rotti, le boccette di profumo e di ansiolitico, persino un grosso rospo, è uscita anche l’acqua, ben di più di quella che credevamo, regalo quotidiano delle profondità, tesoro di cui ancora siamo increduli e per sempre grati. La teniamo preziosa, nutrimento per l’inevitabile, soccorso d’emergenza per le piante più sofferenti, e spesso la rimandiamo, se appena appena si può.

Sto imparando molte cose dalla siccità, in questo mio microcosmo appena nato, dove quasi nulla ha radici sufficientemente forti e profonde da intraprendere lunghi viaggi sotterranei tra pietre e argilla. Gli abitanti della Melusina, almeno la maggior parte,  sono vivi solo da un inverno, o nemmeno, e affrontano con coraggio, ma con scarse risorse personali questo mondo faticoso in cui è toccato loro diventare adulti.  Alcune piccole perenni sembrano a loro agio anche così, e quasi non hanno bisogno delle mie apprensive attenzioni mattutine. L’orto, aiutato da una spessa pacciamatura di fieno e da una sorta di millenaria abitudine ai capricci divini, resiste un po’ ammaccato e non tanto bello da vedere, ma ancora colmo di pomodori e zucchini, con eroiche zinnie a fare da contorno. I girasoli, invece no. Li ho seminati questa primavera, caricati di responsabilità enormi, investiti del ruolo scomodo di “trombe d’oro della solarità”, guardiani di un’idea allegra e naif di orto-giardino da sussidiario delle elementari. Per un po’ di tempo le loro gigantesche corolle e i lunghissimi fusti hanno corrisposto alle aspettative, ma ora si sono trasformati in tristi spaventapasseri curvi sotto il peso della disillusione. Li taglierò, per poi riporre le stesse speranze nei nascituri dell’anno prossimo, e così via.

Le rose hanno confermato la loro indomabile natura selvatica: per quanto vezzeggiate, selezionate, potate e disperatamente viziate,  rovi erano e rovi rimangono e, come i gatti, in fondo nulla temono.

Poi lavande e rosmarini, verbene bonariensis, gaure esili e immortali, adorabili spiree dai corimbi rosa rinascimentale, alte e sfumate achillee, alchechengi lampeggianti, l’enorme e imperioso calicanto dell’ingresso, i minuscoli erigeron, il sorprendente geranium rozanne, l’invadente e graziosa impatiens balfourii e su tutte l’euphorbia carachas che penso chieda al cielo ogni mattina di ritardare ancora il pianto.

Le talee amatissime del giardino di mia nonna, i capelveneri mia sfida vinta, le piante d’appartamento in villeggiatura estiva e la capricciosa ed esigente brugmansia di cui sono diventata sacerdotessa vivono invece in un mondo parallelo, in cui una allegra pioggerellina artificiale scende benefica ogni giorno, più o meno alla stessa ora, da un verde innaffiatoio a forma di coniglio. La giustizia non è di questo mondo.

E poi. Succede che, mentre affaticata percorro in salita il prato scricchiolante di erba secca, mi appare, sotto il vecchio ciliegio, il capolino rosato di un ciclamino selvatico, umido di una rugiada boschiva prodotta da qualche minuscola fata solo per lui, in tutto l’universo.

Quando la sera tardi, prima di dormire, lancio un ultimo sguardo mentale al giardino assetato, è lui che mi appare, lucina nel buio, speranza incongrua e paradossale. Conta poco la visione d’insieme. Ci salvano i dettagli.

 


 

martedì 20 aprile 2021

Il cielo che piove su di noi.


Guardo il cielo, lui ricambia lo sguardo, e finalmente si mette a piovere.

Piove piccole gocce fitte e gentili, non bastoni o spade di altri tempi e momenti, non fiumi in piena e cascate potenti, non scrosci e scontri, non tempeste inquiete da risvegli notturni. Non tuoni e vento.

Il cielo oggi piove leggero, che quasi -quasi- non vedo. Non ci sono pozzanghere sulle quali spiare le gocce, non ci sono rivoli ai lati del viale, l’acqua è una carezza necessaria, e come tale subito assorbita dalla pelle della Terra. Senza schiaffi, senza spinte, il cielo, da tanto è delicato, sembra fermo. Non vedo, e allora sento, con il braccio nudo e la mano aperta, ed è il tatto, più di altri sensi, il tramite che mi fa comunicare con lui (a me, alla foglia e alla lumaca)

Quando piove, quando piove così, dopo una lunga agonia di sete, dopo preghiere, speranze e timidi sguardi, il cielo bianco e lattiginoso, di nuvole fumose, finalmente abbandona il suo esasperante mutismo, la sua impenetrabile altera lontananza, e inizia, piano, a parlarci.

Lo vedo, benevolo, scendere in mezzo a noi, con i suoi mille amorevoli occhi, con mille dita premurose, e con mille voci tutte uguali ci sussurra una canzone continua e riposante, senza sorprese, monotona e dolce come un salmo.

Ci consola, ci calma, ci lava, ci purifica e ci prepara prima della frenesia orgiastica della piena primavera che verrà.

Oggi il sole è sospeso, ed è questo manto grigio a prendersi cura di noi e di tutti i noi con cui lo dividiamo, togliendo la sete e liberando i pori, permettendo alle foglie giovani di esporre i loro alfabeti verdi e lucidi, finalmente di parlare e di parlarsi. Le rocce, le pietre, persino la ghiaia, si svegliano e diventano vivi, ricordano la loro natura segreta di sorgenti e greti di fiume. I semi iniziano il loro viaggio, scendono un po’ e come quasi ogni cosa vivente, da bruchi diventano farfalle, da uova piccoli uccelli destinati al volo. Tutto è pronto, nella pioggia primaverile, per la consueta e sempre nuova trasformazione, ed è così anche per il cielo, che invece di starsene lassù, precipita in mezzo a noi, rinuncia a un po’ della sua divinità per sporcarsi di fango e così poterci amare.

È bello credere a una nostalgia di terra, a un desiderio di corpo (di più, di incorporazione) e insieme sapere che ci è dato il permesso di compiere -a noi umani terricoli, una specie di piccolo sacrilegio perdonabile, un rito silvano di rigenerazione. Se spalanchiamo la bocca, diventiamo foglie e fili d’erba, e ci allaghiamo di cielo.

Tra un minuto, o domani, i piani saranno di nuovo divisi, il cielo lontanissimo sopra i nostri rami e il sole di nuovo imperatore farà di noi quello che più gli piacerà. Ma adesso, ancora per un poco, con il cielo che piove, siamo tutti una sola cosa.

venerdì 26 marzo 2021

Come tigri in salotto.


Quelle del pianerottolo, abbandonate a languire nell’angolo buio, vicino alle scarpe e allo zerbino,

quelle di San Valentino, che trascorrono l’esistenza vestite a festa, ornate di cuori man mano scoloriti, 

quelle non amate, doni non graditi di spasimanti desolati, 

quelle salvate (dal cimitero, dal supermercato, dal marciapiede, dal cassonetto, dalla vicina) in un impeto di empatia e ce la farò, 

quelle che invece no,

quelle della legge di Murphy, che più son brutte più perseverano, 

quelle fiorite anzitempo, fuori stagione e fuori misura, grasse di concimi e luci artificiali,  

quelle sul bancone del macellaio,  del droghiere, del minimarket, tutte impomatate, ancora confezionate

trattate come fiori recisi, con data di scadenza, 

quelle nelle boutique fallite, che muoiono lente dietro vetrine impolverate e manichini svestiti, 

quelle al cinquanta per cento, nello scaffale delle offerte, 

quelle morte da anni, e per questo vive per sempre, grigie e mummificate nell’angolo vicino alla tv, 

quelle sulle mensole in alto o appese al soffitto, condannate alla dimenticanza e al “le bagno domani”, 

quelle costrette alla convivenza in improbabili composizioni, come in uno zoo, la giraffa accanto al pinguino, il cactus vicino al ciclamino

quelle annegate in sottovasi ricolmi, 

quelle predilette dal gatto, 

quelle che in natura sono cascate e intere foreste

e se non fossero infiacchite da polvere e termosifoni 

si mangerebbero la casa e tutto il condominio

quelle con i brillantini sulle foglie o la neve spray della vigilia di Natale, 

quelle umiliate con occhi, cappelli e cartelli d’auguri

quelle nei vasi eleganti senza il buco di scolo, 

quelle a ornare l’ingresso in penombra, 

quelle davanti alle tapparelle abbassate, 

quelle dimenticate, nelle case delle nonne in ospedale, 

o d’estate, o negli appartamenti in affitto e in ristrutturazione. 

Quelle di moda,

quelle fuori moda,

quelle della zia,

quelle che cambiano posto ogni settimana e alla fine finiscono in balcone,

e poi nel bidone.

Quelle che sognano i tropici,

quelle che sognano il deserto,

quelle che cercano l’umido,

quelle che anelano il sud.

Quelle che stanno lì perché non possono andare altrove e rassegnate non chiedono conto di un destino un po’ così, che tanto sanno di far parte del tutto vegetale ed è già una consolazione. 


Quelle che si  affollano davanti alle finestre e da fuori sembrano proprio bambini, ansiosi di correre in cortile.


venerdì 19 febbraio 2021

Il gelo e l'ulivo.

 


Fa molto freddo, un freddo umido e pungente che non mi lascia scampo e che dopo dieci minuti azzera la cultura, riportandomi a uno stato di animale indifeso e richiamando immediati brutti pensieri, e altrettanto immediati sensi di colpa “nelle nostre tiepide case”. Il freddo -questo freddo- è il mio personale psicoattivo per rapidamente connettermi con mondi che conosco non davvero. Per le mistiche la fame, per i camminanti la fatica, per me la via è il freddo umido di metà febbraio.  

Fa più freddo di quanto dica il termometro, un freddo senza rassegnazione, non tollerabile. Mi impensierisco per i piccoli bulbi appena nati, per la terra che -presa da ansie primaverili-ho liberato l’altro ieri dalla pacciamatura di foglie e fieno, per le talee di rose del giardino di mia nonna Maria che sono già gonfie di gemme  e soprattutto per il giovane ulivo piantato la scorsa primavera accanto al muretto, che prende ogni gelata come un tradimento, come uno schiaffo non meritato. Povero ulivo da supermercato, con le sue sempreverdi foglioline argentee, costretto a essere bandiera di pace e di mediterraneo, così impreparato alla vita di qui, e ora soldatino in trincea, neanche protetto dalla coltre di neve diventata terra ghiacciata.

Per qualche incomprensibile chiodo spartano, inculcato nelle pieghe della mia educazione, mi ostino a guardare da lontano la sua solitaria battaglia,  a non fornirlo di coperte artificiali, insomma ad abbandonarlo lì, ad affrontare il destino, il probabile gelicidio e la notte sotto zero, senza velo da sposa a coprire tronco e chioma. Una specie di darwinismo invernale, se ce la fa ce la fa,  non è così che si diventa forti, a prezzo di brividi e sofferenze?

 Mentre scrivo però, crollano certezze e templi, e dopo aver infilato il mio secondo maglione,  già mi viene voglia di rimediare. Chi sono io per guardare con superiorità i giardinetti a prato inglese e ciottoli bianchi, dove troneggiano ulivi e palme, come mummie avvolti in garze e teli, improbabili totem nell’inverno cuneese? Magari hanno ragione loro.

 Alla fine non faccio nulla, tranne sperare che immaginazione, preghiere e atti psicomagici possano da soli  funzionare da termosifone.

Vedremo. Ora non si capisce ancora se c’è patimento, e intanto è tornato il sole.

I limoni, il lime,  la brugmansia, il cappero alassino, l’asparagina e persino il capelvenere oggetto di uno dei miei primi esperimenti di sopravvivenza in condizioni estreme,  continuano il lungo soggiorno invernale nella serra, dalle miracolose e incomprensibili proprietà isolanti. In quella piccola porzione di mondo protetto, le piante sonnecchiano tenendosi compagnia, come se l’inverno fosse una convenzione o poco più.

L’erba è croccante sotto i passi, gli uccellini si scrollano di dosso la brina e sembrano volare più leggeri di qualche settimana fa, Chira, il cane giallo, corre fino in fondo al recinto e annusa tracce di conigli e volpi, abbaia, chiama, sembra inebriata da qualche energia che non riconosco.

Alla fine, come sempre, basta prestare ascolto e fare esercizi di pazienza. Tutto e tutti si stanno preparando alla rinascita primaverile.

Persino l’ulivo forse sa, e comunque molto meglio di me, che questi aghi di gelo sono proprio gli ultimi colpi, quelli più aggressivi, quelli più feroci, di una battaglia ormai inequivocabilmente perduta.

 

 

 

 

mercoledì 3 febbraio 2021

Non più e non ancora.



Non più e non ancora. Le chiazze di prato in mezzo alla neve, che ogni giorno si allargano e cambiano forma, sembrano dall’alto carte geografiche, estuari, canyon, continenti, isole alla deriva nell’oceano, ma anche nuvole in transito. Oppure il manto di un grosso animale maculato di cui si riesce a scorgere solo il dorso.  

I colori sono ancora quelli di prima, grigi, neri, bianchi e marroni, ma gli squarci di verde, come strappi nella tovaglia o patchwork imbastiti, sono sufficienti a dare paletti allo sguardo, a creare stanze e strade. Intorno agli alberi, soprattutto quelli grandi, il verde è più esteso e circolare, grazie alla vita sotterranea delle radici e al dialogo misterioso che unisce in profondità tutti i viventi.

A guardare bene, in quella superficie umida dove il fango si mischia alle foglie e i fili d’erba sono capelli di neonato, c’è già trasformazione. Forse in luoghi più vicini al sole questo è un primo vero risveglio, e un’avvisaglia dei preparativi per la nuova stagione. Qui il ritmo è lento, la canzone è ancora ninna nanna e questi impercettibili cambiamenti assomigliano di più al passaggio a una fase nuova di sonno, quella del mattino presto, dove la luce, le speranze e le nerissime paure si mescolano in un impasto onirico ancora difficile da decifrare, ma sostanza e nutrimento di un incredulo mattino.  

Persino la neve, nei punti dove ostinata sembra resistere al ciclo del tempo (ma è un’illusione, perché solo la specie umana, di tutte, si ostina, e io con lei), non è più uniforme biancore, ma, persa la giovinezza del pieno inverno, è pelle rugosa, punteggiata di macchie, passetti, orme, saltelli, persino strane sinuose andature. Increspature del vento, piccole volontà che, incoraggiate dall’intermittente tepore tardo invernale ridanno inizio ai loro traffici o, nel caso di fate e topi ragni, cominciano il balletto delle visite di cortesia. 


Non più e non ancora. In questa terra di mezzo, il tempo dà il tempo per lunghi e nascosti riti di passaggio, canti propiziatori che arrivano alle nostre orecchie come richiami di uccelli, fruscii, scricchiolii e scrosci d’acqua dai tubi delle grondaie. Cascate continue e gocce intermittenti creano minuscoli laghetti estemporanei, l’acqua scorre discreta ai bordi del muretto e dei marciapiedi. Le foglie dei piccoli ellebori, degli epimedium coraggiosi sotto il melograno dormiente si riprendono lo spazio verticale come nulla fosse, dopo la lunga clausura, scrollandosi di dosso la neve con un’energia di steli verdi scuro che non lascia spazio al pessimismo. Altri, le giovanissime rose mutabilis,  le Penelope ancora forestiere, l’iperico (hypericum magical red flame), privato del suo giallo pirotecnico, e una variegata teoria di arbustini e cespuglietti emergono rotti e un po’ stropicciati. 

Strano periodo di transizione, in cui il sole e la pioggia insieme sciolgono la neve, improbabili e precari alleati al servizio della primavera.

Non più e non ancora, ed è difficile tenere a freno l’entusiasmo e non esagerare con la caccia al tesoro (vedo la punta di un bulbo, una primula, tre margherite, e i bucaneve, dove ho messo i bucaneve?). Perché basta una notte di gelo o una spuzzata di brina per ributtarci all’indietro, nella sorella disillusione. 


La volpe, stamattina, attraversava in controluce il grande prato in discesa, precisa e senza incertezze.

Forse bisognerebbe soltanto imparare da lei.  Vivere senza attendere, camminare senza cercare, andare senza anticipare, buttare gli orologi, respirare, che ogni minuto è lunghissimo se stiamo fermi a guardarlo passare. 

lunedì 25 gennaio 2021

The widest possible view of the open sky.

 

 

Il capelvenere ora guarda il cielo e forse, ma lo dico piano, abbiamo trovato un accordo. Dopo fallimenti così definitivi da togliere senso e gioia a ogni ulteriore tentativo, dopo disamoramenti rapidi e volubili ritorni, spostamenti schizofrenici, accanimenti terapeutici, bagni di vapore, piogge e travasi, preghiere, musica e ostentata indifferenza, eravamo infine arrivati a un “mai più” quasi convinto. Non tutto si può avere, non tutto si può fare, persino la magia si arrende di fronte a certe resistenze del reale e si ritira sdegnosa davanti a divinità arcane, che non capisce e non comanda. E così a volte l’amore non è corrisposto, il fraintendimento è costante, i bisogni dell’altro incomprensibili. Tutto dovrebbe funzionare e nulla funziona, eppure c’era pazienza e volontà, desiderio e attenzione, gli ingredienti sembravano giusti. Forse la temperatura delle mani nell’impasto, o un fugace cattivo pensiero, i fluidi della luna crescente, gli scontri di trigoni e case celesti, forse il karma, il ciclo mestruale, il temperamento, il tempo. Quell’incontro disarmonico tra parole e silenzi, una carezza che per sbaglio diventa schiaffo, inciampare nel tango. A lasciar parlare i corpi, si sa subito se provengono dallo stesso pianeta. È solo che spesso non si vuole sentire, si persevera a parlare due lingue diverse e a far finta che funzionino traduzioni improvvisate. Con le piante, non c’è finzione che tenga. Senza pelle, vivono di vibrazioni, impercettibili variazioni di umore e umidità, reagiscono senza mediazioni al mondo che le contiene, scambiandosi chimica e respirando pensieri indecifrabili. 

E dunque il capelvenere. Mia pianta totemica, vibrante delicatissima creatura boschiva, sorella di fate e falene, muschio e sorgenti, dalle piccole mani di spore, felce umbratile e ombrosa. Amore mai corrisposto, mal riposto, che ho visto tante volte seccare di sete e solitudine, malinconica emissaria di una natura umida e nascosta, da cui siamo stati esiliati e a cui maldestri desideriamo tornare. E dunque il capelvenere, non conto quante volte l’ho comperato, curato, spostato e spruzzato, persino relegato per disperazione e per non doler del cuore nella serra fredda insieme ai limoni. Poi un giorno, per serendipity, vagando distratta alla ricerca di suggestioni e altri possibili, trovo, in inglese, un articolo tecnico, per niente poetico, che per qualche ignota ragione si trasforma in formula magica, definitiva e audace, così potente da cambiare la realtà, quella dura. 

Give the plant (maidenhair fern, cioé capelvenere)  the widest possible view of the open sky”. Open sky. Questa giuro non l’avevo mai pensata, che il capelvenere amasse affacciarsi a guardare il cielo, e di tutte, era forse l’unica attenzione che non gli avevo dato. 

Eppure guardare il cielo è anche una delle mie, di cose preferite. A volte basta trovare un unico piccolo comun denominatore per cancellare anni di incomprensioni.

 

Sul suo davanzale che guarda il giardino, il capelvenere dimentica tutto il resto, il suo essere un’anima tormentata e capricciosa e persino il sole che, al mattino, gli tocca (sacrilegio) le sensibilissime foglie.

Ha ciò che ama, e tutto il resto, come in un privatissimo universo, si dispone per renderlo felice.